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Zona Franca

Sì sa, i partiti tradizionali hanno mostrato sul tema della zona franca integrale notevole timidezza , anche perché non hanno ritenuto che l’argomento, fino a qualche tempo fa, non avesse un ristoro immediato in termini elettorali.

Questo è tanto vero che quando sono sorti i movimenti zona Franca,  i partiti non foss’ altro che per esorcizarli hanno incominciato ad occuparsene. Allo stato la istituzione della zona franca e diventata una questione ideologica, di volta in volta i partiti l’appoggio  seconda che diventino maggioranza o opposizione.  Il tema zona franca presenta tre aspetti, il primo di natura culturale, il secondo politico, il terzo elettorale. E’ necessario far comprendere ai cittadini l’utilità della zona franca, non solo per le banche le imprese le multinazionali, si tratta di una rivoluzione culturale, che investe l’economia la fiscalità il lavoro, ovvero incide
Sullo stesso modo di vivere dei cittadini, di essere diversi nella società modificare lo sviluppo della stessa città,  perché diversi sarebbero i cittadini nel rapporto con l’economia e il lavoro e nelle relazioni sociali.
Solo se il tema diventa culturale, cioè se riusciamo a far nostra la prospettiva di crescita che ci mostra la zona franca, se il tema diventa nostro dei nostri figli della nostra famiglia del mio vicino, solo allora la zona franca diventa una questione politica: perché assume la forma di pressione sociale trasversale organizzata verso le istituzioni e e verso i partiti che manifesterà ero un imprescindibile interesse strumentale elettorale che solo muove  la politica. Pero il tema è sul tavolo, i Riformatori non intendono far finta di non vederlo, il nostro partito al contrario è un ascoltatore interessato e se del caso protagonista. Sappiamo anche però, come dicevo cheIl tema ha un forte contenuto ideologico, per cui non sono auspicabili forzature tattiche che renderebbero vana la strategia o vero il successo.

 

Violenza donne: al via Orange Days con donna “lapidata”

Una donna vestita di arancio in mezzo a un cerchio: attorno, sei maschi di tutte le razze. Un avvoltoio solca il cielo e loro, uno dopo l’altro, alzano la mano per lapidarla ma le pietre si trasformano in una pioggia di fiori. E’ la campagna creata da United Colors of Benetton a sostegno di Un Women in occasione del 25 novembre, la Giornata Mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Arancio è il colore simbolo scelto dall’Onu per un futuro senza violenza. Con la sua “donna lapidata di fiori” Erik Ravelo, il direttore creativo di Fabrica (il centro di comunicazione del gruppo di Treviso) ha scelto di ribaltare il cliché del ‘neanche con un fiore’, così come l’anno scorso, sempre per il 25 novembre, aveva ribaltato i ruoli della Pietà di Michelangelo: “Un atto di violenza diventa un atto d’amore, celebrazione della donna come centro dell’universo”, ha detto all’ANSA l’artista cubano: “In questo mi sono ispirato ai grandi del Rinascimento, ho pensato a Leonardo”. La campagna punta sui maschi, perché il problema è lì e le statistiche sono agghiaccianti. Una donna su tre ha subito violenze fisiche o sessuali nella maggioranza dei casi da parte del partner o di un familiare “Picchiate in casa, molestate in strada, vittime di bullismo sul web. Questa pandemia di violenza può essere fermata ma non possiamo farlo da soli. Ci servono alleati per creare consapevolezza e a promuovere una cultura di ‘tolleranza’.

Colora di arancio il tuo quartiere, per una sensibilizzazione capillare e globale che parte da New York dove al tramonto oggi New York Empire State Building e Palazzo di Vetro si illuminano all’unisono di arancio: due fari dell’impegno di società civile e Onu per una campagna in cui il segretario generale Ban Ki moon, che oggi ha azionato il pulsante di illuminazione dell’Empire, crede a fondo. Per United Colors lo sforzo non si ferma qui: al video di Ravelo girato in Argentina a 4.700 metri di altezza, la Fondazione UNHATE, cuore dell’impegno sociale di Benetton Group, ha affiancato la propria piattaforma digitale unhatenews.com (risultato di una collaborazione con il Dipartimento per l’Informazione, DPI, delle Nazioni Unite) ai contributi di giovani di tutto il mondo under 30, che potranno proporre notizie che vorrebbero diventassero realtà sui temi al centro della agenda di sviluppo Onu post 2015. Tra le 100 news più cliccate, dieci saranno scelte da UNHATE Foundation e trasformate in progetti da realizzare concretamente nel 2015.

Il 2013 è stato un anno nero per i femminicidi, con 179 donne uccise, in pratica una vittima ogni due giorni. Rispetto alle 157 del 2012, le donne ammazzate sono aumentate del 14%. A rilevarlo è l’Eures nel secondo rapporto sul femminicidio in Italia, che elenca le statistiche degli omicidi volontari in cui le vittime sono donne.

Aumentano quelli in ambito familiare, +16,2%, passando da 105 a 122, così come pure nei contesti di prossimità, rapporti di vicinato, amicizia o lavoro, da 14 a 22. Rientrano nel computo anche le donne uccise dalla criminalità, 28 lo scorso anno: in particolare si tratta di omicidi a seguito di rapina, dei quali sono vittima soprattutto donne anziane.

Anche nel 2013, in 7 casi su 10 (68,2%, pari a 122 in valori assoluti) i femminicidi si sono consumati all’interno del contesto familiare o affettivo, in linea con il dato relativo al periodo 2000-2013 (70,5%). Con questi numeri, il 2013 ha la più elevata percentuale di donne tra le vittime di omicidio mai registrata in Italia, pari al 35,7% dei morti ammazzati (179 sui 502), “consolidando – sottolinea il dossier – un processo di femminilizzazione nella vittimologia dell’omicidio particolarmente accelerato negli ultimi 25 anni, considerando che le donne rappresentavano nel 1990 appena l’11,1% delle vittime totali”.

Per 10 anni quasi la metà dei femminicidi è avvenuto al Nord, dal 2013 c’è invece stata un’inversione di tendenza sotto il profilo territoriale, divenendo il Sud l’area a più alto rischio con 75 vittime ed una crescita del 27,1% sull’anno precedente, anche a causa del decremento registrato nelle regioni del Nord (-21% e 60 vittime). Lo indica il rapporto Eures sul femminicidio in Italia, dal quale risulta anche un raddoppio delle vittime al Centro Italia, dalle 22 nel 2012 a 44.

Il Lazio e la Campania con 20 donne uccise presentano nel 2013 il più alto numero di femminicidi tra le regioni italiane, seguite da Lombardia (19) e Puglia (15). Ma è l’Umbria – come riporta il dossier – a registrare l’indice più alto (12,9 femminicidi per milione di donne residenti). Nella graduatoria provinciale ai primi posti Roma (con 11 femminicidi nel 2013), Torino (9 vittime) e Bari (8). Il femminicidio nelle regioni del Nord si configura essenzialmente come fenomeno familiare, con 46 vittime su 60, pari al 76,7% del totale; mentre sono il 68,2% dei casi al Centro e il 61,3% al Sud (con 46 donne uccise in famiglia sulle 75 vittime censite nell’area). Qui al contrario è più alta l’incidenza delle donne uccise all’interno di rapporti di lavoro o di vicinato (14,7% a fronte del 5% al Nord) e dalla criminalità (18,7% contro l’11,4% del Centro e l’11,7% del Nord).

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Ottantuno donne, il 66,4% delle vittime dei femminicidi in ambito familiare, hanno trovato la morte per mano del coniuge, del partner o dell’ex partner; la maggior parte per mano del marito o convivente (55, pari al 45,1%), cui seguono gli ex coniugi/ex partner (18 vittime, pari al 14,8%) ed i partner non conviventi (8 vittime, pari al 6,6%).

I dati relativi al 2013 – come rileva la ricerca Eures sui femminicidi in Italia – sono sostanzialmente sovrapponibili a quelli complessivamente censiti a partire dall’anno 2000. Lo scorso anno si è avuto, “anche per effetto del perdurare della crisi”, un forte aumento dei matricidi, spesso compiuti per ragioni di denaro o per una esasperazione dei rapporti derivanti da convivenze imposte dalla necessità: sono infatti 23 le madri uccise nell’ultimo anno, pari al 18,9% dei femminicidi familiari, a fronte del 15,2% rilevato nel 2012 e del 12,7% censito nell’intero periodo 2000-2013 (215 matricidi). Ad uccidere sono nel 91,7% dei casi i figli maschi e nell’8,3% le figlie femmine.

Il 2013 rileva una significativa crescita dell’età media delle vittime di femminicidio, passata da 50 anni nel 2012 a 53,4 (da 46,5 a 51,5 anni nei soli femminicidi familiari).
Diminuiscono le vittime con meno di 35 anni (da 48 a 37), e aumentano quelle nelle fasce 45-54 anni (+72,2% passando da 18 a 31) e 55-64 anni (+73,3%, da 15 a 26) e, in quella 35-44 anni (+26,1%, passando da 23 a 29 vittime) e tra le over 64 (da 51 a 56, pari a +9,8%).
A “mani nude”, per le percosse, strangolamento o soffocamento: così nel 2013 è morta ammazzata una donna su tre. A rilevarlo è il rapporto Eures che mette in relazione tale modalità di esecuzione ad un “più alto grado di violenza e rancore”.

Se le armi da fuoco si confermano come strumento principale nei casi di femminicidio (45,1% dei casi, seguite, con il 25,1%, dalle armi da taglio), la gerarchia degli strumenti si va modificando: le “mani nude” sono il mezzo più ricorrente, 51 vittime, pari al 28,5% dei casi; in particolare le percosse hanno riguardato il 5,6% dei casi, lo strangolamento il 10,6% e il soffocamento per il 12,3%. Di poco inferiore la percentuale dei femminicidi con armi da fuoco (49, pari al 27,4% del totale) e con armi da taglio (45 vittime, pari al 25,1%).

Collegato alla modalità di esecuzione è il movente. Quello ‘passionale o del possesso’ continua ad essere il più frequente (504 casi tra il 2000 e il 2013, il 31,7% del totale): “Generalmente – dice il dossier – è la reazione dell’uomo alla decisione della donna di interrompere/chiudere un legame, più o meno formalizzato, o comunque di non volerlo ricostruire”. Il secondo gruppo riguarda la sfera del “conflitto quotidiano”, della litigiosità anche banale, della gestione della casa, ed è alla base del 20,8% dei femminicidi familiari censiti (331 in valori assoluti). A questi possono essere aggiunti gli omicidi scaturiti da questioni di interesse o denaro, 19 nel 2013, il 16%, e si tratta prevalentemente di matricidi.
“COLPEVOLI DI DECIDERE” – Oltre 330 donne sono state uccise, dal 2000 a oggi, per aver lasciato il proprio compagno. Quasi la metà nei primi 90 giorni dalla separazione. Il rapporto Eures, diffuso oggi, li definisce i ‘femminicidi del possesso’, e conseguono generalmente alla decisione della vittima di uscire da una relazione di coppia; a tale dinamica sono da attribuire con certezza almeno 213 femminicidi tra le coppie separate, e 121 casi in quelle ancora unite dove la separazione si manifesta come intenzione.
Il 45,9% avvengono nei primi tre mesi dalla rottura (il 21,6% nel primo mese e il 24,3% tra il primo e il terzo mese). Ma il “tarlo dell’abbandono”, segnala il dossier, ha una forte capacità di persistenza e di riattivazione nei casi di un nuovo partner della ex, della separazione legale, o dell’affidamento dei figli. Tanto che il 3,2% dei femminicidi nelle coppie separate avviene dopo 5 anni dalla separazione.
Il femminicidio è spesso un’escalation di violenze e/o vessazioni di carattere fisico. I dati disponibili indicano un’elevata frequenza di maltrattamenti pregressi a danno delle vittime, censiti nel 33,3% dei femminicidi di coppia nel 2013 (27 in valori assoluti) e nel 22,5% tra il 2000-2013 (193 in valori assoluti). Eures sottolinea “l’inefficacia/inadeguatezza della risposta istituzionale alla richiesta d’aiuto delle donne vittime di violenza all’interno della coppia, visto che nel 2013 ben il 51,9% delle future vittime di omicidio (17 in valori assoluti) aveva segnalato/denunciato alle Istituzioni le violenze subite”.

 

 

 

LA peste suina africana? E’ diventata sarda!

IO STO CON LA COLDIRETTI.
Nell’ultima settimana, per fortuna, si sono accesi i riflettori su un tema importantissimo per la Sardegna e per tantissime persone coinvolte nel sistema produttivo della suino cultura “L’ERADICAZIONE DELLA PESTE SUINA IN SARDEGNA”.
L’occasione si è creata grazie all’incontro organizzato dal nostro partito, per dibattere su un argomento altrettanto importante, il funzionamento del sistema sanitario regionale, con la partecipazione del ministro della salute Beatrice Lorenzin e dell’assessore regionale alla sanità Luigi Arru, tutto ha inizio quando, nel corso dell’incontro, il ministro dichiara: E’ la peste suina la vera emergenza dell’isola perché mette a repentaglio tutto l’export di carni suine e derivati italiani, noi abbiamo il dovere di intervenire con un piano di eradicazione serio e mediato con le popolazioni, come ci è stato richiesto dall’Unione Europea, ed annuncia la volontà di nominare un commissario. L’assessore Arru risponde: Non abbiamo bisogno di alcun commissariamento “esterno” e siamo certi di aver intrapreso un percorso che ci porterà finalmente a sconfiggere una malattia che da decenni colpisce gli allevamenti suini della Sardegna e provoca gravissimi danni economici all’intera Isola”.
Mi permetto di fare alcune considerazioni sulle dichiarazioni del ministro e dell’assessore, premettendo che non sono esperto in materia: entrambi riconoscono la gravità del problema condividendone l’analisi storica, ma divergono sulla scelta dello strumento o peggio sul nome da attribuire a colui o coloro che dovranno operare. Task force, commissario o maxi esperto, ma
sopratutto divergono su, chi gli sceglie? l’impressione che ho avuto è che si stesse giocando una partita fuori dal campo regolamentare, un campo diverso e lontanissimo dall’emergenza e dalla gravità del caso, come se si volesse circoscriverne la portata territoriale e politica, trascurando gli aspetti ed il contesto in cui si colloca il problema. Sono convinto che non esistono confini n’è comunali n’è regionali e tantomeno nazionali, esistono invece, i mercati e l’economia globale, quindi mondiale. Prendiamo atto che son passati quasi 40 anni e che non possiamo più perdere tempo a polemizzare sugli strumenti o peggio, su chi sceglierà gli operatori e gli esperti, sottraendolo alla ricerca di sinergie e consenso sulle strategie e sulla definizione di un vero piano d’azione.
Su questi temi il mondo e l’economia ci guardano perché sono interessati alla e dalla vicenda, e noi per risolverla dobbiamo guardare al mondo ed alle sue opportunità, senza limiti. Devo dire che di questi tempi mi appassionano sempre meno le dispute sulla gestione del potere, e che invece, mi appassionano sempre di più la ricerca della condivisione e di alleati con cui  condividere un’idea sul tema, io l’ho trovato, per questo vi riporto integralmente, la risposta data, qualche tempo fa, dal presidente regionale della Coldiretti alla seguente domanda:
ESISTE UNA SOLUZIONE ALLA PESTE SUINA?
Oggi va di moda accusare gli altri di non avere fatto o di non fare, ma l’amara verità e’ che per l’ennesima volta, ognuno si è trincerato dietro una piccola parte del proprio compito, facendo sapere a tutti di averlo svolto nel migliore dei modi, almeno nel rispetto della legge. Ma quando dobbiamo cambiare una tradizione, una cultura millenaria, un modo di vivere, insomma quando
bisogna cambiare una parte del DNA di un sistema, non può bastare lavorare su un complesso di norme.
Tutti noi, che direttamente o indirettamente ci occupiamo del settore, non siamo stati in grado di uscire dall’anonimato delle norme per sconfiggere il problema della peste suina, non siamo stati in grado di far capire che se riuscissimo a trasformare in commercio quelle tradizioni oggi in discussione, probabilmente potremmo avere un futuro dalla suinicoltura sarda. Eh si! Perché i nostri prodotti in alcune zone della Sardegna non sono buoni, sono eccezionali. Ma qualcuno ha mai assaggiato i sapori di un prosciutto crudo di Villagrande, di Talana, di Desulo o di Fonni? Quei prosciutti che troviamo in qualche spuntino di campagna, o ad un invito di un amico, quelli che molti vorremmo mangiare ma che però condanniamo? A questi prodotti non siamo riusciti a dare nella totalità dei casi una risposta che potesse diventare mercato, che potesse diventare business,
che potesse diventare opportunità di crescita per il territorio. Ed e’ troppo semplice dire che è colpa degli altri. Dobbiamo ammettere tutti, senza ipocrisie, che questo rappresenta un vero fallimento per l’intera Sardegna: per il sistema istituzionale, sconfessato nei fatti; per noi delle rappresentanze incapaci nella ricerca di soluzioni per la Sardegna, o parte di essa, dipinta come il regno dell’illegalita’.
Non è questo un tentativo di cercare commiserazione, e’ la realtà, e’ un modo per dire che la soluzione, onestamente, la dobbiamo trovare noi, non la possiamo demandare agli altri, ma è anche un modo per ammettere che noi, non sappiamo più che soluzione trovare. Le abbiamo tentate tutte o quasi, per risolvere il problema della peste suina e oggi, si sussurra, senza troppa
enfasi, che dovremmo arrivare al vuoto biologico. Sarà questa la scelta giusta? Sicuramente con questo sistema si potrebbe risolvere la vicenda dal punto di vista epidemiologico e normativo ma siamo sicuri che senza trovare soluzioni chiare per quei territori, il problema non si ripresenti sotto altre forme? Ciò che manca certamente e’ un indirizzo forte per l’economia suinicola della Sardegna, che nessuno in trentaquattro anni ha mai dato, un indirizzo che non si potrà mai leggere nei piani di eradicazione della peste suina, un progetto che non può che nascere dalla Regione Sardegna, dalle rappresentanze, con il coinvolgimento delle popolazioni e degli imprenditori locali.
Un progetto non fatto di norme, ma di marketing, di territorio, di cultura, di tradizioni. Allora può essere certamente utile convincere la Comunità Europea a non chiudere le esportazioni, ma questo non può rappresentare l’obiettivo ultimo, così come non può essere ultimativo debellare la peste suina senza pensare di accompagnare un progetto economico di sviluppo per il mercato.
Tutta questa brutta storia che dura da troppo tempo, e’ ormai diventata talmente scontata che, dopo tanti anni, sembra quasi essere diventata parte della storia della Sardegna. Auguriamoci da sardi, di essere noi un giorno a poterne scrivere il lieto fine.

Battista Cualbu, Presidente Coldiretti Sardegna